“…Et nous voyons que l’ame en ses passions se pipe plustost elle mesme, se dressant un faux subject et fantastique, voire contre sa propre creance, que de n’agir contre quelque chose” (Essais,I,IV). (“E noi vediamo che l’anima nelle sue passioni preferisce piuttosto ingannare se stessa, costruendosi un oggetto falso e fantastico, magari contro la propria convinzione, che non agire su qualche cosa”. Saggi,IV,p.37).
“Non è vero, ma ci credo”. Non è vero perché so che non esiste la verità. Ci credo perché non posso fare a meno di credere. Riconoscere il dominio universale della “grande illusione” mi pare il primo passo sulla strada della saggezza, che è anche quello della tolleranza. Riconoscere che ognuno è pronto a credere e ad amare non ciò che è “vero” o più ” degno di essere amato” – che probabilmente non esiste – ma solo ciò che serve a mantenere o a ristabilire il suo equilibrio interiore fa cessare le ragioni di qualsiasi conflitto ideologico. A livello razionale e cosciente, s’intende, perché di quanto accade al nostro inconscio non possiamo disporre. Ma è già tanto sapere che le nostre convinzioni, i nostri ideali e sentimenti non hanno niente di assoluto e che non abbiamo nessuna verità eterna da proporre, e tanto meno da imporre. Quanto a liberarsi dalla “grande illusione”, concetti come questi o analoghi a questi sono spiegati e insegnati da secoli, da uomini saggi tenuti nella più universale considerazione, senza che abbiano mutato gran che nei comportamenti del genere umano. Quanto scriveva Montaigne quattro secoli fa, in piena caccia alle streghe, non ha impedito che, in forme diverse, la caccia alle streghe proseguisse fino ai giorni nostri. “L’anima nelle sue passioni preferisce ingannare se stessa”, perché gli uomini hanno bisogno di essere ingannati e le azioni più indegne della razionalità umana non hanno mai avuto difficoltà a trovarsi una giustificazione teorica. Poiché individui e popoli comunicano a livello razionale, nessuno ammetterà mai di avere una fede “cieca”, un amore “cieco”, una politica “cieca”. E’ forse un caso che i grandi testi universali, sacri e non sacri, siano anche quelli che si prestano alle interpretazioni più diverse e contraddittorie? Anche per chi non ne riconosce l’ispirazione divina, la Bibbia e il Corano sono tra le più alte espressioni della civiltà umana. Nessuno ammetterà mai che contengano un messaggio equivoco, ma la storia è lì a dimostrare che dottissime citazioni bibliche e coraniche sono servite nei secoli e servono tuttora a “fondare” e confortare qualsiasi predicazione morale o politica, anche le più scellerate. E’ possibile negare che il Vangelo sia il testo principale della non-violenza? E’ possibile, se è vero che fino a ieri bande di “guerrieri di Cristo Re” provvedevano in buona fede a torturare e liquidare “sovversivi” in America latina. Per non parlare delle crociate, dei roghi dell’Inquisizione o dei buoni frati che benedivano gagliardetti fascisti in partenza per la guerra di Spagna. La spada di San Michele Arcangelo ha raramente ispirato sentimenti pacifici. I non violenti citano il comandamento di amare nemici e persecutori. I violenti citano: “non sono venuto a portare la pace, ma la guerra”, e l’invito a “vendere il mantello per comprare una spada”. Le immagini di Gesù che frusta i mercanti nel tempio hanno sempre procurato sollievo a chi, in fondo all’anima, non sopportava l’invito del Maestro a Pietro perché rimettesse la spada nel fodero. Per me, sia chiaro, i non violenti hanno ragione da vendere, ma anch’io non faccio eccezione: la regola è che sono sempre gli altri a fare un uso distorto delle scritture. Così, è più che giusto che cerchiamo un avallo alla nostra vocazione radicale o moderata, progressista o conservatrice, nelle pagine di Voltaire o De Maistre, Marx o Proudhon, Gramsci o don Sturzo, ma è più probabile che le vere ragioni di quella vocazione stiano nelle pieghe segrete della nostra storia personale o familiare. Quanto a me,sono grato all’analisi per avermi chiarito che certe “verità” a cui mi appoggiavo erano solo il risultato di associazioni simboliche sviluppate dal mio inconscio. Per quarant’anni sono stato un cattolico praticante e, come si dice, “impegnato”. La mia biblioteca è ancora piena di volumi di teologia, ma devo dire che oggi mi riesce più facile capire il linguaggio dei mistici che quello dei teologi. Sarà, come dice San Paolo, che la fede è “razionale ossequio”, ma a me sembra piuttosto una contraddizione in termini. Nessuna impresa mi appare più ardua e improbabile che la pretesa di analizzare razionalmente il mistero. Se vado indietro nel tempo, e cerco di ripercorrere il mio “cammino di fede” dalla dogmatica ingenua del catechismo infantile a quella “ragionata” dei padri della Chiesa e di San Tommaso, all’entusiasmo per la teologia francese e tedesca prima e durante il Concilio, all’analisi critica del linguaggio biblico e alle riflessioni sempre più “audaci” sui testi della teologia protestante, mi par di scoprire tutta una serie di aggiustamenti e di rimozioni “sapienti” per non ammettere che il mio ossequio non aveva niente di “razionale” ma rappresentava solo la risposta, sempre più inadeguata, a bisogni inconsci di altra natura. E il bisogno era tale che, mentre mi esibivo in coraggiosi “distinguo” sull’infallibilità del Papa, sul sacerdozio dei fedeli o sul celibato dei preti, mi accontentavo di lasciare nel vago “quisquilie” come l’immortalità dell’anima, l’esistenza di Inferno,Purgatorio e Paradiso, la divinità di Cristo o la sua “presenza reale” nell’eucarestia. Perciò, se ho avvertito un giorno l’esigenza di rileggere la Bibbia con occhio critico, di interpretarne il linguaggio, di pormi il problema della “storicità” dei miracoli, di tutti i miracoli, fino al più grande di tutti – la resurrezione di Cristo – senza il quale, dice San Paolo, “la nostra fede è vana”, vuol dire che qualcosa si era mosso, non a livello intellettuale ma nel profondo, qualcosa che rendeva necessario il distacco, sia pur doloroso, da un “mondo” simbolico che aveva accompagnato e orientato tutta la mia vita.
Roma, inverno 1989