“Les hommes (dit une sentence Grecque ancienne) sont tourmentez par les opinions q’ils ont des choses, non par les choses mesmes. Il y auroit un grand poinct gaigné por le soulagement de nostre miserable condition humaine, qui porroit establir cette proposition vraye tout par tout…Si ce que nous appellons mal et tourment n’est ny mal ny tourment de soy, ains seulement que nostre fantasie luy donne cette qualité, ils est en nous de la changer” (Essais,I,XIV).
(“Gli uomini (dice un’antica sentenza greca) sono tormentati dalle opinioni che hanno delle cose, non dalle cose per se stesse. Farebbe un gran passo, per il sollievo della nostra miserevole condizione umana, chi potesse rendere questa proposizione vera in tutto e per tutto…Se ciò che chiamiamo male e tormento non è di per se stesso né male né tormento, bensì soltanto in quanto la nostra immaginazione gli dà questa qualità, sta in noi cambiarla” (Saggi,XIV,pag.64).
La sensibilità dipende dall’immaginazione, l’immaginazione dalla volontà. Se fosse davvero così, mio caro Montaigne, ci parrebbe di aver risolto tutti i nostri problemi. Non avremmo più fame, né sete, né freddo, né caldo. Niente più dolore, soltanto piacere. Se fossi davvero convinto che il dolore è un’opinione, potrei cambiare opinione e far cessare il dolore. Ma è davvero così? Come sempre, si tratta di intendersi sulle parole. Che cosa vuol dire opinione? Sul dizionario leggo:” l’interpretazione di un fatto o la formulazione di un giudizio in corrispondenza di un criterio soggettivo e personale”. La fame, la sete, il freddo, il caldo sono interpretazioni soggettive? In parte, certo, lo sono, visto che non tutti hanno fame o freddo allo stesso modo e nelle stesse circostanze, ma oltre una certa soglia non c’è essere umano, non c’è animale che non provi comunque uno stimolo doloroso. Da quali circostanze biologiche è definita questa soglia, che cosa accade esattamente nel sistema nervoso quando essa viene superata? Dicono che sia una difesa, un segnale che qualcosa minaccia la struttura o la funzionalità dei tessuti che formano l’organismo, tant’è che quando manca la capacità di avvertire il dolore l’individuo corre seri pericoli. Non una condanna, dunque, ma una necessità di vita, un prezzo da pagare alla morte per essere, almeno provvisoriamente, risparmiati. Se così è, si dovrebbe cercare di acquisire non tanto la insensibilità al dolore quanto la capacità di dominarlo. E non sembra dubbio che ciò sia possibile, visto che si danno circostanze in cui perfino le mutilazioni fisiche possono essere sopportate, distratti dall’ardore di una battaglia o concentrati altrove dall’ipnosi come succede ai fachiri. All’inverso, è possibile soffrire anche fisicamente di un dolore immaginario, come capita a chi continua a provare sensazioni sul braccio o sulla gamba amputati. E poiché sono ignorante, mi consento di pensare che il cervello funzioni come una centralina in grado di accettare o respingere a comando le informazioni dolorose che provengono dall’ambiente, e che per farla funzionare a dovere occorra avere acquistato una particolare abilità. In una guerra millenaria contro il dolore dell’esistenza, le filosofie e le religioni orientali hanno inventato la meditazione yoga. L’ascetica occidentale ha preferito impegnarsi nel tentativo di trasformare il dolore in piacere. Che altro sono le stigmate se non il piacere di identificarsi con la passione del crocifisso? E i santi non hanno forse trasformato in raffinato piacere mentale il sacrificio per gli altri? Che altro è la pace interiore dell’anima se non un piacevole equilibrio dei simboli registrati dal nostro sistema nervoso? Si può trovare piacere nell’adesione razionale ai modelli di vita che ci sono proposti, molto più che nella soddisfazione immediata dei propri istinti. Quando la coscienza dei cittadini avesse raggiunto un tale livello di maturità, nessuna società avrebbe più bisogno di promettere paradisi o di minacciare inferni. Il problema nasce quando non esistono ancora le premesse culturali per un’adesione di questo tipo, dicevano gli illuministi. Il problema nasce perché i modelli di vita proposti sono quasi sempre funzionali a interessi dominanti che non sarebbero in grado di sopravvivere ad un confronto critico, hanno poi detto i marxisti. Sta di fatto che non esiste oggi società al mondo che non sia strutturata come sistema di dominio, anche se i mezzi per garantire quest’ultimo sono più o meno “civili”, più o meno “democratici” o “autoritari” a seconda del grado di evoluzione sociale e politica. Chissà per quanto tempo ancora, mi chiedo, la paura di un inferno o la promessa di un paradiso, in questa o nell’altra vita, serviranno a conservare una struttura sociale o a modificarla. Intanto, dalla violenza poliziesca stiamo passando alla manipolazione delle coscienze attraverso i mass media. Probabilmente è un progresso. In definitiva, è pur vero che le cose ci appaiono belle o brutte, piacevoli o dolorose a seconda delle associazioni che esse provocano nella nostra mente. Si tratta di sapere chi, nella nostra vita, ha maggior potere di suscitare queste ultime, se noi stessi o gli altri. Che siano gli altri è più che probabile in tutti quei casi – e sono la quasi totalità – in cui l’associazione mentale è inconscia. ” De gustibus non est disputandum” come dicevano gli antichi, e non perché ognuno ha un suo modo di ragionare, ma perché in fatto di gusti la ragione non interviene se non ormai a cose fatte, e la sola spiegazione non fuorviante andrebbe magari ricercata in qualche episodio dimenticato della nostra infanzia. Perché a me piace moltissimo la verdura e i miei figli, al contrario,non la possono soffrire? Perché a me piace il vino, sia pure con moderazione, e i miei figli hanno sempre preferito pasteggiare con acqua? C’è forse una spiegazione razionale al fatto che io non riesca (o creda di non riuscire) a digerire l’agnello? Tuttavia, dopo aver rinunciato al tentativo di razionalizzare le nostre preferenze o idiosincrasie, non è impossibile, in molti casi, modificare le une o le altre per accordarle alla nostra ragione con l’esercizio ripetuto e diverse associazioni mentali. Solo che occorre essere molto pazienti. Ho imparato in questi anni a trattare il mio inconscio come un cavallo viziato, badando a misurare con giudizio la pressione delle gambe e la lunghezza delle redini, la carezza e la frusta. L’ascetica è indispensabile soprattutto a chi vuol godersi la vita. Per fortuna, il ricorso all’immaginazione non è soltanto strumento nelle mani della società per ridurci all’obbedienza, ma anche un modo per noi di sottrarci alla sofferenza psichica e psicosomatica prodotta dal condizionamento sociale. Mi riferisco a quella che il biologo Laborit definisce la “fuga”. Quando la nostra capacità di lottare si infrange contro ogni sorta di frustrazioni – dice in sostanza Laborit – la sola alternativa alla somatizzazione diventa la fuga, che può essere droga, o pazzia, ma anche genio inventivo o creazione artistica. Un artista si distingue per la capacità di creare, accanto alle sue opere, ogni giorno se stesso, conquistando ogni giorno il piacere più grande,che è quello di dar vita a nuove associazioni di idee, parole, gesti, così come di suoni, figure, colori. Non sono sicuro che la tendenza attuale della nostra società sia quella di sviluppare negli uomini l’immaginazione. Al contrario, ho l’impressione che, proprio quando si va allargando il patrimonio comune di idee ed esperienze e dunque anche il potenziale immaginativo di ceti sociali un tempo esclusi dalla cultura, si rafforzi anche il tentativo di imporre a questi ultimi il massimo di uniformità possibile nell’elaborazione mentale, rifornendo continuamente i cervelli di
immagini stereotipate e di luoghi comuni, prefabbricando dal video un ruolo che potrebbe essere lasciato alla fantasia individuale.